venerdì 27 giugno 2014

Elementare

Banale, elementare, come si vuole definirlo il bisogno di chiacchierare con una vecchia conoscenza?
Elementare, nella sua semplicità logica ed emotiva.
Sono passati poco meno di tre anni da quando ci siamo viste l'ultima volta. Di sicuro sono passati tre anni dal falò in spiaggia quando, bruciando gli odiatissimi appunti sulle derivate, ho pensato: "però... mi mancherà".
"Il tempo ci spinge verso direzioni diverse" dice Capovilla. Così è stato.
Involontariamente la distanza fisica è diventata distanza temporale. Eppure, chissà, oggi le ho scritto come se domani mattina dovessimo vederci nella solita aula dipinta di verde, come se dovessimo sfogarci per l'ennesimo compito a sorpresa di matematica. In cui, inevitabilmente, eravamo tra le peggiori.
Stasera ho chiuso i libri perchè non riuscivo più a vedere i contorno delle lettere.
"Come procede la vita?" le chiedo ingenuamente.
"Lavoro". Scrive e cancella, scrive e cancella. Quei puntini di sospensione sono tre nodi in gola di qualcuno che prova vergogna.
La incalzo, le chiedo dove lavora.
"Faccio... la cassiera".
Lei si vergogna, ma la stupida sono io, che mi ero resa conto che non voleva dirmi che lavoro facesse, ma l'ho incalzata lo stesso.
Elementare era anche la mia convinzione che studiasse. Abbiamo frequentato lo stesso liceo, la stessa classe, le stesse ricreazioni, le stesse corse nei corridoi. Per non parlare delle risposte ai compiti di matematica e chimica, voti inclusi. 
Nelle ore finte di educazione fisica, quando guardavamo con orrore gli sballonzolamenti nelle altrui tute, non pensavo al futuro, nè mi sarebbe mai venuto in mente che le nostre possibilità fossero così diverse.
Dal suo imbarazzo mi sono accorta di una scoperta tanto ovvia quanto elementare: io sono nata e cresciuta in centro, lei in periferia. Io ho frequentato classi eccellenti, ho fatto esperienze stimolanti fin da piccola, lei giocava con gli altri bambini per la strada o nel cortile dell'oratorio. A casa mia ci sono mille libri, da lei quasi non c'è posto per i letti.
Elementare. E terribile, nella sua ovvietà.
Al liceo abbiamo avuto le stesse opportunità, però. Ma io le afferravo con voracità, lei preferiva imparare a ballare.
La questione è elementare: io ho acquisito una forma mentis, lei poteva solo percepire gli stimoli.
Con stupore sciocco mi rendo conto dell'abissale differenza della qualità della scuola, a seconda del posto in cui si cresce. Ancor più sconvolgente è scoprire quanto la cattiva distribuzione delle risorse condizioni la vita di un essere umano. E non in Africa, non chissà dove nel mondo. Qui, accanto a te.
Anche don Milani aveva espresso un pensiero elementare: insegnare vuol dire prendersi cura dell'altro. Ma non è così, o almeno, è così se nasci nel posto giusto. 
Spesso sento di non meritare le opportunità che mi vengono offerte. Troppo spesso, tornando a casa (quella dove la terra è nera di ferro), scopro che chi se le merita fa il pendolare Andria-Bari.
Ma io posso scegliere, posso addirittura concedermi il lusso di rifiutare delle offerte.
E' molto peggio di quello che si vuole ammettere. E' come sapere che dal primo giorno di prima elementare tuo figlio da grande farà il cassiere. Non vuoi farlo? Mi spiace, mamma e papà ti hanno comprato questo futuro, era in offerta.
Ovvio, scontato, come il futuro di chi nasce in periferia. 
Può darsi che non ci sia bisogno di ragionamenti elaborati, basta una scoperta elementare. Che poi, non è ancora così evidente.

lunedì 2 giugno 2014

Resilienza

Come stai, dici?
Hai presente quelle scarpette rosse con la punta di gesso che ho comprato a 14 anni? Sto così.
Sto con queste cosette bellissime tra le mani, le guardo, le rigiro, le infilo ai piedi, ma non le so usare.
Si, si, ci riprovo, non ti preoccupare, questa volta non ho speso soldi inutili.
Però mi fanno male e io non c'ero alla lezione in cui hanno spiegato come si fa a stare in equilibrio sulle punte. No, va bene, la recupero quella lezione. Ma se mi fa troppo male stare sulle punte? Forse sono goffa... no, dai davvero, non lo so se mi va. Quanto chiedono su eBay secondo te?
Pronto? Dai, non fare così, non la prendere come una cosa personale... Si, mi vanno ancora le scarpette, non mi sono cresciuti i piedi.
Ma dai, mi vedi, grande e grossa come sono, a tentare di stare sulle punte! No, basta, le vendo.
Pronto? Pronto?
Come sto...
Perchè vuoi che ti risponda come fanno tutti? Lo sai che ho quella sindrome... quella che ti costringere a dire quello che pensi, come si chiama? Sindrome di Asperger? Si, vabbè, forse non ce l'ho davvero.
Sto come una che ha dimenticato tutte le parole che conosceva e non sa più come esprimere quello che ha in testa. Io non ho una guerra, nella testa, come dicono tutti. A me sembra di avere uno spazio enorme e bianco e non sapere più come riempirlo, se metterci un divano o una tenda.
Sei ancora in linea? Mi stai ascoltando?
Sembra che tu stia ascoltando qualcos'altro, mi segui? Si, si, la smetto. Senti, ma tu lo sai cos'è la "resilienza"? Come che c'entra! Ascoltami.
L'altra sera sono andata al cinema. No! Lo so che hai fretta, ma mi devi ascoltare! Non sono una dei mille impegni che hai, a me batte il cuore, mi devi stare a sentire! Siediti.
Ecco, ero al cinema a vedere un documentario sull'ecologia. Non sbuffare, lo sai che sono noiosa.
La resilienza è la capacità di un sistema di reagire con positività ad un trauma. Ad esempio, se io ti lasciassi adesso, potremmo parlare di resilienza se tu andassi a ballare.
Ah, mi avevi chiamato per questo? No, non mi va di venire. Lo sai che non so ballare.
Si, si, poi ti racconto se qualcuno ha comprato le mie scarpette.

venerdì 24 gennaio 2014

Giano

Giano ha due volti: uno rivolto al futuro e l'altro al passato.
Io e te siamo come Giano, ma il nostro destino è meno spirituale. Apparteniamo allo stesso corpo, perfettamente sovrapponibili nei gesti, negli atteggiamenti. Totalmente incapaci di guardarsi negli occhi.
Ognuno guarda nella propria direzione, nessuno dei due riesce a vedere l'altro.
Non riusciamo a vedere nemmeno lo stesso orizzonte. Forse siamo l'Androgino di Platone, ma con i corpi al contrario, per questo non riusciamo a stare abbracciati.
Siamo due candele, l'una di fronte all'altra, spente. Nessuno ha il fiammifero per accenderci, nessuno può farci sciogliere. 
Il mondo scorre, io seguo il mio rivolo, tu corri dietro al tuo.
Finiamola qui.

Vivo in una prigione.
E' terribile, perchè non c'è amnistia che mi possa liberare. A te non interessa farlo.
La mia mente ha imposto delle rigide sbarre di ferro e non riesco ad uscire. Tu vivi nel tuo meraviglioso mondo delle regole, delle cose giuste e logiche e non vedi e non ti interessa la mia folle gabbia cerebrale.

Ordinario, sei ordinario.
Fai la cosa giusta, fai le cose che ti piacciono, sei incontestabile. Che rabbia, che odio! E' insopportabile la tua faccia perfettamente composta, con la tua barba sempre curata, con i capelli sempre ben tagliati.
Non sbagli mai.

Dici che non parlo, che so solo guardarti. Se anche tu mi guardassi, sentiresti tutte le cose che ti racconto con lo sguardo.
Ma tu ti infastidisci e abbassi gli occhi.

Abbiamo dormito insieme e niente, nemmeno un battito del cuore sembrava andare a tempo.
Nemmeno le nostre braccia si incontravano mai.

Non ti sopporto più. Perchè i tuoi difetti sono i miei e vederli vivi è insopportabile.
Finirà, perchè i due volti di Giano stanno iniziando a spingere in direzioni opposte e questo debole corpo finirà dilaniato.

lunedì 2 dicembre 2013

A.L.M.A. (Accomodante Licenziosa Muta Allegra)

Che triste destino quello di Alma. Quel suo nome così dolce e poetico che l'aveva condannata ad una vita infelice di terribili ferite. 
Le stradine bianche di Ronda e il caldo spagnolo erano le righe delle sue pagine madide di sudore e lacrime. Era famosa nella calle come "el alma madrugadora", l'anima mattiniera, perchè era l'unica che lavorava nell'afa statica della mattina. I suoi clienti erano professori e uomini d'affari,  persone con poco tempo e ancor meno anima e lei ne offriva in cambio di qualche moneta per tirare avanti.
Un professorone vecchio e grasso, con un enorme naso da rapace necrofago un pomeriggio le aveva scritto sulla mano Quell'acronimo che era stato la sua condanna: Accomodante, Licenziosa, Muta e Allegra. Gliel'aveva scritto spinto da un impulso poetico di cui non era realmente possessore, indossando i panni di un Cirano tutto naso e niente cuore.
Il vecchio aveva aggiunto, in preda all'estasi di un amore in affitto: "tu sei come dovrebbe essere ogni donna: accomodante, licenziosa, muta e allegra" e da allora gliel'aveva ripetuto ogni mattina, fin quando Alma non ritrovò il suo nasone in prima pagina, serio e compianto.
Alma non era una di quelle ragazze di periferia che raggiungono la grande città con tanti sogni nella borsetta per poi finire col farla volteggiare agli angoli delle strade. Alma pensava che, per contrappasso, nascendo avevano dimenticato di fornirle un'anima. Sin da ragazzina non sentiva niente, nè gioia nè dolore nè noia. Aveva vissuto i primi sedici anni della sua vita in uno stato di anarchica atarassia.
Così aveva cominciato a vendersi per comprarsi un'anima e invece, una mattina di primavera, l'aveva trovata gratis.
Gliel'aveva rubata il Misterioso Giocatore. Non conosceva il suo nome, ma poteva passare ore intere affacciata alla finestra in attesa di vederlo passare. Spesso, se sentiva il rumore delle sue scarpe italiane, sgusciava via dal letto per correre alla finestra. Non era bello, ma lei ne era completamente folgorata. Era ormai un anno che dimenticava di mangiare se pensava al Misterioso Giocatore e trecentosessantacinque giorni in cui aveva riempito quaderni interi nel tentativo di riuscire a disegnarne gli enormi occhi verdi. Lui era giovane, aveva sempre soldi con sè, non si capiva da dove arrivassero e Alma aveva supposto si trattasse di un giocatore d'azzardo o almeno così voleva che fosse.
Dopo un anno passato alla finestra a lanciargli sorrisetti e a dimostrare quanto fosse veritiero il suo acronimo, si accorse che il Misterioso Giocatore aveva cominciato a ricambiare segretamente gli sguardi leziosi.
Anche se Alma incarnava i canoni della donna perfetta, si trattava pur sempre di uno scudo: da quando aveva visto il Misterioso Giocatore, si era meravigliata nel ritrovarsi sofferente per ogni sguardo negato e così la sua allegria e condiscendenza aveva finito per diventare un modo disperato di attirarne l'attenzione. Alma condinuava a darsi a chiunque e a vedere in chiunque gli occhi del Misterioso Giocatore. Correva alla porta, alla finestra, erano cadute tutte le difese e i clienti avevano cominciato a spaventarsi nel vedere quell'allegra puttana diventare una donna, una comunissima donna piena di amarezza e delusione. Nell'ultimo periodo Alma aveva scoperto quanto fosse consono quel soprannome che aveva inventato per il suo amore: il Misterioso Giocatore aveva cominciato a frequentare la casa di tolleranza, pagando una per una le ragazze, ciascuna per una notte diversa. E ogni notte Alma tremava di dolore e gelosia affacciata alla sua finestra, aspettava di vederlo uscire alle prime luci dell'alba, quando lui, uscendo, le rivolgeva uno sguardo divertito dalle sue lacrime. Da Accomodante Licenziosa Muta e Allegra come una bambola, un oggetto di impeccabile fattura, era diventata Amara Logorata  Muta (dal dolore) e quasi Anoressica.
Dopo un'attesa struggente, giunse la sua notte, tutte le ragazze della casa si erano concesse e mancava solo lei. Decise di non vestirsi da puttana, sistemò la stanza e comprò un abito da signora con quello che rimaneva dei suoi risparmi. Attese il tramonto. Attese la mezzanotte. Attese l'alba. Ma lui non venne. Quella mattina lo vide mano nella mano con una delle prostitute della casa, tra tutte la più Accomodante, Licenziosa, Muta e Allegra, dopo di lei. Una ragazza che, come lei prima di innamorarsi, non possedeva anima. Con il tradimento di quel suo amore univoco, Alma scoprì che in amore l'anima non serve. Da quella mattina, svendette la sua anima a chiunque ne volesse un pezzo, tornando ad essere Accomodante Licenziosa Muta ma Amara, attendendo disperata l'epilogo di una storia in cui l'amore è un privilegio di chi non ama.

domenica 15 settembre 2013

Il morbo dello scrittore

"Come si sente oggi?"
"Così. Come ieri. Mi è venuto un po' da piangere questa mattina, ho ripensato a quella vecchia signora."
"Nella sua condizione è normale, anzi, mi raccomando: si deve trattenere, deve esercitarsi a non rigettare all'esterno tutto quello che le passa nella testa."
"Non ce la faccio, è logorante, è tutto sbiadito. La vita là fuori è terribile"
"Lei ha il morbo dello scrittore: ha creato una vita parallela nella sua testa, vede delle storie e forza la realtà. Deve gestirlo o rischia di essere inghiottito."
"Perchè no."
Il medico scrisse qualcosa sulla sua cartella e il Paziente avrebbe voluto afferrare quella penna e scrivere, scrivere e scrivere ma da settimane gli avevano insegnato a starne lontano come si fa con un fumatore e una sigaretta. Ripeteva notte e giorno: "Sai cos'è una penna? Una pena con più forza".
Da bravo paziente ripeteva il suo mantra tre volte al giorno. Non poteva rimanere chiuso in una stanza o la sua immaginazione volava alta. Non poteva uscire o generava una storia per ogni passante.

"Dottore, sono stato al supermercato questa settimana. Sono andato in quello che mi ha consigliato lei, quello con i muri grigi e le luci al neon."
"Com'è andata?"
"Male, dottore, male. Sono entrato, non ho salutato nemmeno la cassiera, non ho scritto la lista della spesa. Non c'era nessuno, ho comprato le fette biscottate, delle uova, ho preso il prosciutto confezionato, così non ho dovuto chiedere al salumiere. Ma non c'erano mozzarelle, nè formaggi confezionati. Ho pensato di farne a meno, mi son detto 'prenderò solo del pane'. Ma il pane era solo fresco, così come la verdura, la frutta...Ho dovuto chiedere al ragazzo al banco affettati. Ho chiesto a lui che sembrava così anonimo e insignificante per avere la certezza di potermi controllare... Dottore, forse non sono adatto per questa cura."
"Vada avanti, la prego, sono io che posso dirle se è adatto o meno."
"L' ho visto lì, in piedi, con le braccia lungo i fianchi, il camice e il cappellino bianco,lo sguardo vuoto. Poi ho visto la barba incolta e i capelli lunghi legati sotto il cappellino e non era più così anonimo! Dottore, ha presente la superficie delle bolle di sapone, ha presente quei colori fluidi e caleidoscopici che strisciano sulla superficie trasparente? E' così che vedo quando una storia mi esplode nella testa.
Entra una ragazza, anche lei abbastanza anonima, con gli occhiali e i capelli arruffati e lui, il giovane salumiere, sorride.
Vede dottore, mi è bastato questo.
La ragazza girava con finto disinteresse tra gli scaffali, prendendo di tanto in tanto qualcosa. Lui faceva finta di pulire l'affettatrice, ma la guardava. Lei si avvicina al banco salumi e ho sentito la tensione, ho percepito il magnetismo. I due si sono guardati dritti negli occhi, fissi come due calamite trattenute.
La ragazza chiede qualcosa, il ragazzo allora cerca di non tradire emozioni. Cerca di mantenere intatto il suo sguardo triste. Afferra muto un pezzo di grana e un coltello.
La ragazza aggiunge qualcosa e lui scoppia a ridere rivelando delle fossette timide. Anche la ragazza le ha viste, ho visto il suo cuore sospendersi, trattenersi, esplodere d'orgoglio per averlo fatto ridere.
E' un po' in imbarazzo, ma deve essersi promessa di non lasciarlo sfuggire. I due non sanno che dirsi, rimangono lì a guardarsi tra i salami e la bresaola, vergognandosi degli sguardi e rifugiandosi nel pavimento. La ragazza esce, lui la guarda andare via. Penso non si rivedranno, sembrava quasi che lei fosse andata lì a salutarlo, che volesse dirgli qualcosa ma una sorta di mano invisibile le abbia stretto le corde vocali.
Dottore, proseguo? Secondo me la terapia non sta funzionando"
"Questo sta a me dirlo. Lei è un paziente indisciplinato, tutto qui. Doveva entrare in un supermercato, comprare qualcosa e uscire. Ha visto solo una cliente che chiedeva del formaggio. Tutto qui. Il tempo a nostra disposizione è terminato. Signorina!"
L'infermiera che per tuttoil tempo era rimasta in un angolo a sfogliare un giornale si avvicinò.
"Dia al signore le sue pillole. Lei cerchi di essere costante, di ripetere quella frase che le ho detto e si ricordi i suoi esercizi per smettere di vedere cose che non esistono. Deve essere più cinico, più distaccato, la realtà le sembra sbiadita perchè nè è fin troppo immerso. Deve allontanarsene per poterla vedere nella sua globalità. Chiaro?"
"Chiaro. Quanto le devo per la seduta?"
Il medico avvicinò la sua barbona all'orecchio del paziente.
"Niente. La prego, torni ancora."

sabato 11 maggio 2013

Torniamo umani

Ho fatto un piccolo esperimento: per un certo periodo ho provato a non pensare troppo, a eliminare ciò che mi dà ansia, a studiare di più e leggere di meno e concedermi meno film e più facebook.
Per i primi tempi (anche abbastanza lunghi) sono stata molto tranquilla, molto spensierata e molto positiva. Col passare dei giorni, le ansie passavano. Dopo poco ho smesso di provare qualsiasi genere di emozione.
Sono diventata un muro per quasi due mesi.
All'improvviso, mi sono resa conto di non essere più in grado di fare alcun genere di ragionamento e, come in preda ad una bulimia culturale, ho passato un'intera serata a passare da un documentario all'altro, da un libro all'altro fino a crollare.

Se non si pensa, si smette di sapere e chi non sa, si affida. Ecco perchè Renzi ha torto quando dice che abbiamo bisogno di più leader e meno follower.
Abbiamo bisogno di più menti, di più alternative e meno Capi della Salvezza. Abbiamo bisogno di meno economia e più politica.
Scandalo! Meno economia?
Ebbene si, se abbiamo smesso di pensare e abbiamo iniziato a calcolare è colpa dell'Economia, la Scienza dei Mostri.
Con la nascita dell'economia, emerge un nuovo tipo di ragionamento, prettamente razionale, che vede l'uomo come una macchina di calcolo perfetta, in grado di compiere delle scelte basate sulla valutazione di costi e benefici. Il pensiero è stato levigato fino a farlo sparire, l'Uomo è diventato un numero in un equazione. Sulla bilancia dell'economista, l'ago pende verso il prodotto.
Certo, esiste la corrente comportamentista dell'economia che usa anche la psicologia, ma rimane un uso finalizzato a prevedere le scelte del consumatore.
Si può parlare di Scienza Sociale? Si può dire che l'economia sia al servizio dell'uomo?

Casaleggio si complimenterebbe con me per questo delirio sfascita. Ma io non vedo gli alieni che portano l'economia sulla Terra per distruggere l'umanità. Diversamente, credo sia necessario riportarla ad una dimensione più umana. Come? Ripartendo da ciò che non ci appartiene: dalla Terra.
Le politiche ambientali, le fonti rinnovabili, la Green Economy, non sembrano così mostruose se ne parlo a mio nonno. Lui le capisce, sa di cosa parlo, non può che condividerle perchè si rende conto che se usa i diserbanti chimici le olive crescono più grosse ma il terreno smette di rendere dopo pochi anni.
Mio nonno lo sa che se ci privatizzano l'acqua, non solo la bolletta è più costosa, ma non può più innaffiare come si deve; non c'è bisogno di una laurea in ingegneria nucleare per capire che avere una centrale nucleare nel Golfo o un termovalorizzatore o una discarica, non solo si svaluta la terra e il turismo crolla, ma fa male alla salute.
Mio nonno queste cose le può capire non perchè sia diverso dai suoi amici di Briscola, le può capire perchè le conosce. E può dare la sua proposta, magari non sarà degna di un Premio Nobel, però lui ha lavorato la terra e la sua idea banale diventa uno spunto per un ingegnere, che la propone al sindaco, che la promuove e diventa un'alternativa.
Ecco perchè non abbiamo bisogno di leader, caro Renzi. Abbiamo bisogno che la gente sappia e riprenda a pensare, uscendo da questa terribile inerzia che ci fa scivolare senza attrito attraverso i giorni. Abbiamo bisogno di Leader che siano follower, cioè persone in grado di rappresentare una sintesi della pluralità di opinioni, attraverso le proprie competenze. La destra e la sinistra non sono morte, il loro ruolo è quello di selezionare le opinioni tra loro simili.
E c'è bisogno, soprattutto, di più Comunità. Nel senso che il bene, la condivisione, il mutuo soccorso, non sono solo scelte razionali, ma sono scelte che nascono dalla necessità dell'Altro, propria della nostra natura.
Ognuno può offrire all'altro un servizio, una spiegazione, un supporto, qualsiasi cosa. L'altro ricambierà in qualche modo. Non parlo ingenuamente del baratto, parlo di ricostruire le relazioni sociali, di riprendersi l'umanità.
Ma finchè non si riattiva la circolazione cerebrale di un popolo annichilito, la scelta più facile è quella di comandare e contare.

lunedì 7 gennaio 2013

L'inganno

Cara Rivoluzione,
vorrei poterti parlare, ma finisco inevitabilmente per scriverti una lettera. E' una cosa scioccamente formale, ma non conosco altro modo per raccontarti qualcosa che non vedi.
Mia cara Rivoluzione, ora sei nella stanza accanto alla mia, con la tua bandiera del Che che protegge le tue intenzioni, hai la televisione accesa ad un volume bassissimo e nel frattempo sonnecchi sul tuo materasso comprato per corrispondenza.
Quando ti ho vista, a stento ti ho riconosciuta: ti ricordavo per strada, con i capelli lunghi e scompigliati, colorata e chiassosa. Ci somigliavamo molto.
Invece ora sei silenziosa, i capelli sono corti, biondi e lisci, la mattina ti svegli presto per andare a lavoro e la sera torni tardi, mangi la tua zuppa e ti metti a letto.
Ti danno uno stipendio da fame, ti tengono dieci ore in piedi a piegare vestiti e a trascinare scaffali, la tua laurea ormai è inutile, il tempo l'ha resa obsoleta, il tuo ragazzo ha trovato lavoro in un'altra città, ma tu non puoi raggiungerlo. E se lasci questo lavoro da schiavi e non ne trovi più uno nuovo?
Allora te ne stai nella tua stanza al buio con la tv accesa, ti svegli presto e torni tardi, il fine settimana bevi e ti rimetti a letto, per poterti alzare presto il giorno dopo.

Mia carissima Rivoluzione,
forse non te lo ricordi, ma qualche settimana fa ci siamo incontrate in quel supermercato vicino casa. Con la casacca verde, ordinavi l'insalata al banco frigo.
Non ho avuto il coraggio di salutarti, ti ho chiesto di passarmi la busta di radicchio e tu, con lo sguardo amaro quanto quel radicchio, mi hai passato meccanicamente la busta rossa.
Mi sono chiesta quali fossero i tuoi sogni, come ti vedevi da piccola, se hai mai desiderato di diventare famosa o ti fosse mai piaciuta l'idea di un bel lavoro tranquillo che però ti lasciasse tempo per coltivare le tue passioni, oppure se tu abbia mai voluto un lavoro movimentato che ti occupasse tutto il giorno.
E invece non ti sei accorta di me, dei miei dubbi, di quel supermercato, della tua casacca e del radicchio amaro.

Cara Rivoluzione adorata,
ti aspettavo il tardo pomeriggio, quando giocavamo insieme (e potevamo farlo senza vergogna, perchè allora non c'era fretta). Ogni giovedì alle sette ci vedevamo, tu mi leggevi le tue poesie bellissime, piene di parole, sempre diverse, fantastiose...
Convinta di seguire le tue orme, mi sono dimenticata un po' di te. Poi è scoppiato tutto: non si poteva più giocare, c'era urgenza di te, allora tutti hanno iniziato a chiamarti, a tirarti, a toccarti, ad abusarti.
Quando ci siamo riviste, non scrivevi più poesie, riuscivi a scrivere solo di te, ma senza verbi al presente. Solo al passato. Ti sei accontentata di un lavoro da impiegata, dicendo: "non è quello che sognavo, però non è così male, magari più in là mi piacerà".
Ti ho chiesto che lavoro fosse e mi hai risposto: "responsabile del controllo giornaliero dei titoli di viaggio nel settore dei mezzi di locomozione su binari". Cioè, il controllore dei biglietti del treno.

Vedi, mia dolcissima Rivoluzione, ti prendono per il culo.
Lo sai che per te ho un rispetto reverenziale, ma ti prendono per il culo e io non pensavo fossi così ingenua.
Quella volta che ti sei svegliata mi hai fatto battere il cuore, eravamo lontane ma ti vedevo in televisione e facevo il tifo per te, mi rendevi orgogliosa!
Invece ti sei fatta illudere da un titolo altisonante per un lavoro umile. Ti hanno rubato quelle belle parole che prima conoscevi e te le hanno restituite sotto forma di promessa. E ti accontenti di questo?
Lo diceva Nanni Moretti, "le parole sono importanti!" e non hanno nemmeno l'onestà di dare un nome schifoso ad un lavoro schifoso. Se almeno sapessi a cosa vado in contro, saprei darmi da fare, saprei motivarmi e non fermarmi alla prima scelta.
Se uno ha necessità di lavorare e si mette a fare lo spazzino, almeno può dirsi:
"Cacchio, sto facendo lo spazzino! Da domani mi cerco qualcosa di meglio".
In questo modo, sapremmo esattamente la qualità della vita che si cela dietro ogni lavoro e potremmo responsabilmente scegliere il meglio per noi, per le nostre aspettative, per le nostre disponibilità. E invece no, ci raccontano la storiella dell'equivalente qualità di tutti i lavori, ci rincoglioniscono con nomi che sembrano posti di primo piano e poi ci condannano tutta la vita a lavare cassonetti. "Perchè qualcuno lo deve pure fare e poi è un lavoro di tutto rispetto".
Così, cara Rivoluzione, ci fanno sentire in colpa se ci rifiutiamo, perchè siamo schizzinosi. Allora ci mettiamo a lavorare nei call center e non ci fanno uscire più, diventiamo infelici circondati da altri infelici e ci convinciamo che non arriverai mai, così tu non arrivi per davvero.
Mia amata Rivoluzione, ti ho scritto questa lettera perchè volevo ricordarti che l'unico modo per farti tornare davvero e far cambiare davvero le cose è ESSERE CONSAPEVOLI.
Se l'operatore della nettezza urbana non sa che è uno spazzino, non si ricorderà mai di quando da piccolo sognava di diventare un pittore e non si opporrà mai alla paga di merda, al lavoro di merda, alla vita di merda... Farà ciò che deve, perchè gli hanno raccontato che anche lui è un anello della catena sociale e se lui si rompe, tutto si rompe.
Vedi, parliamo ancora di catene. Ti volevo solo ricordare questo. Ti volevo parlare di quando tu raccontavi dell'uguaglianza, delle pari opportunità, di una mobilità sociale che sia davvero in movimento.
Bè mia cara Rivoluzione, sappi che non ti aspetto, ti cerco negli occhi dei commessi, degli impiegati, degli sfruttati... Spero ti ricorderai un giorno di come si fa a far battere un cuore, nel frattempo, ti cerco e parlo di te.